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sweet, sweet, my hungry sweet melody, sweet…
osserverò le piume alzate contro il vento che
il tuo gorgheggio solleverà nel vuoto intabarrato
e lì, a colpire dove il fianco è muto e
cola l’ombra – rovesciata –
sulla rotondità del giglio oscuro
reciderò gli stami
scivolando al fondo di quel ringhio d’altro canto
da serrare, tra le mie parole nude
erano i giorni delle unghie scheggiate
tra gli spazi tanto freddo e
il ruvidore precipitava l’ululo
a lisciarle sulla faccia ma, non era la paura
a stringere nei nastri l’andirivieni di quel fronte
che vedevo nei suoi occhi
piuttosto un velo, patinato su quel bianco
sopraggiunto come schiuma di
– distacco –
Precipitando di punto in punto (solo due occorrenze: dal “vuoto intabarrato” al “fianco muto” – dall”andirivieni” al “distacco”) fila si sfila (ma alla fine, in un certo senso, tutto si defila) la serialità dei verbi: osservare, sollevare, colpire, colare, recidere, scivolare, serrare, precipitare, lisciare, stringere, sopraggiungere.
Ognuno di questi predicati è contenuto in tutti gli altri, e tutti insieme – formando una serie – concorrono alla definizione (figurazione e defigurazione) del senso, o meglio: della messa in mobilità dei “sensi” che lavorano per il senso.
Ragionando in termini di sostituzione e di relazione ognuno di questi predicati è legato agli altri e potrebbe sostituirlo; e tutti insieme, relazionandosi, rendono intelligibile la sfera del sensibile, ovvero la corporeità.
L’asse paradigmatico si snoda attraverso locuzioni ora metaforiche (vuoto intabarrato / rotondità del giglio oscuro / ringhio d’altro canto), ora sinonimiche (cola-precipitava / serrare-stringere), ma non disdegna la cosiddetta riconciliazione dei contrari (ruvidore-lisciare).
La scansione poetica permette ai propri “punti” di precipitare attraverso un processo che definirei semanticamente matematico.
Tutto coincide, tutto si amalgama perfettamente, tutto sembra naturalmente dato e dovuto.
E la chiusa ci fa capire che il “sopraggiungere”, ovvero la gettata in cui si designa la “venuta”, se da un lato potrebbe essere considerato il giusto compimento, dall’altro lato inaugura la dissoluzione del “gesto”.
Del resto la dissoluzione è presente fin dalle prime battute (piume, vento, vuoto, ombra che cola) e si rinnova conclamandosi in quel “velo” (trasparenza, inconsistenza, impalpabilità) che chiude la danza.
Questa poesia parla e si parla (induce l’ascolto e si pone all’ascolto di sé) nel senso propriamente letterale, ovvero: dice le parole. E non si accontenta di dire, si concede il lusso di scandire e di drammatizzare.
Come avviene tutto ciò?
Molto semplicemente attraverso una sorta di forclusione: l’innesto di una regressione animale al “prima delle parole”, a una originarietà (o pre-originarietà) in cui il linguaggio era propriamente gutturale. Il diktat si snoda, in maniera progressiva (e quindi semanticamente matematica), sulla linea metamorfica “gorgheggio/ringhio/ululo”. L’insieme di queste tre emissioni figura e sfigura quello che Doris definisce “altro canto da serrare tra le mie parole nude”.
L’andirivieni poematico è essenzialmente onomatopeico (come a rafforzare la corporeità che qui si respira a pieni polmoni) ma è messo in abisso all’interno delle “parole nude”.
Le parole nude, parole poetiche di un corpo esposto, in un certo senso intatte, contengono in nuce tutta una serie di altre parole, per così dire, smembrate, spartite, animalizzate, forcluse.
Cosa sono le parole nude?
Sono, forse, le parole tese a “spaziarsi” nell’esposizione.
Si espongono alle unghie scheggiate o, se preferite, espongono le proprie unghie scheggiate.
Ma la nudità di cui sono pregne può rendere il tutto una “dolce melodia”, anche nell’inevitabile “distacco” che conclama e vanifica il gesto.
(Enzo Campi)
- testo da da OLTREVERSO, Zona ed. 2012
Io cerco il fermo immagine quando scrivo, agisco in base ad una profonda necessità di liberarmi di qualcosa di estremamente grande che dentro più non mi sta… e parto da una inquadratura a tutto campo e restringo, restringo fino al sentirmi all’interno di una particella osservata al microscopio, se riesco ad attribuirle un suono o un’idea che assomigli a quello che provo, quando poi la osservo dal di fuori, a mente fredda e riesco a vederla come fosse la prima volta ma la riconosco mia, allora so che ho effettuato una buona ricerca. Ecco il miracolo è che la mente “fredda” ad osservare questa volta è stata quella di Enzo e la particella aveva la dimensione del micron. Il suo è un -osservatorio- bellissimo, pieno di strumenti ad altissima precisione ma… il magico è che lui, sì, usa questi strumenti ma è capace di legare il tutto con una visione poetica sui dati in suo possesso: lui che sfugge alla sua stessa razionale essenzialità e ne moltiplica la persuasione attraverso un filo che diviene tessuto parallelo, capace d’emozione. Fantastico. Doris
tutto ciò che nasce ‘a posteriori’ è, in un certo senso, ‘freddo’.non il ‘distacco’ che sopraggiunge ma, forse, l’attacco per una possibilità di prosecuzione.lo ‘sguardo’ è essenzialmente riduttivo, proprio perché ‘estraneo’.non esiste una critica proveniente da un ‘fuori’ che sia esaustiva, attendibile e che prenda in esame tutti i possibili aspetti e risvolti.esistono solo punti di vista (il modo in cui si guarda e il ‘luogo’ da cui si guarda che comunque si configura a partire da un’angolazione, una prospettiva, un taglio), per questo soggettivi, per questo opinabili.sono partito da un ‘precipite’ (colui che precipita, da fuori, verso un’intestinità) e da un ‘di punto in punto’.perché non tutti i punti sono abbordabili.e perché qualsiasi tipo di sguardo privilegia sempre questo o quel punto.colui che proviene dal di fuori non può essere padrone di tutti i punti che – giustapponendosi l’uno all’altro – formano la linea.la linea (da transitare e in cui transitarsi) è proprietà esclusiva dell’autore.il lettore può appropriarsi di uno o più punti ma non può frequentare – a tutto tondo – l’interezza di una linea che non gli appartiene.tutto quello che ne viene è quindi solo uno ‘sguardo’ che non ha nessuna pretesa esplicativa.molto semplicemente: uno sguardo in cui rischiare una ‘prossimità’. riporto qui la nota che ho scritto sulla scorta dei commenti ricevuti dopo la prima pubblicazione del pezzo: “cerco sempre, nei limiti del possibile (e possibilmente "al limite"), di produrre un’effrazione all’interno di un ‘corpo’. c’è una frase di Klossowski che amo ricordare: ‘Il visibile occulta ciò che abita un essere’. si tratta quindi di sfrangiare l’epidermide e cercare di far emergere ciò che fibrilla in quella che Artaud definiva ‘macchina surriscaldata’. forse la questione verte sul guardare le cose con un occhio diverso che non si accontenta della cosiddetta vista ‘normata’. la norma, per definizione, appiattisce, inscrive le cose all’interno di regole che la poematicità e la poeticità spesso ribaltano, o comunque surdeterminano in altro da sé.non ci sono regole fisse, tutto muta a seconda dell’approccio e del tipo di testo a cui ci si approccia. spesso esagero o fallisco, ma comunque porto alla luce (o faccio sprofondare nel buio – ma dal mio punto di vista è la stessa cosa) la mia "personale esperienza" sul "gesto" artistico che, in quel momento, condivido e che in un certo senso faccio "mio". ci sono sempre delle "distanze", e la cosa più difficile (ma per questo più intrigante e gratificante) consiste nel farle interagire per un fine comune. che tutto questo arricchisca o impoverisca il "dato" originale è cosa che spetta alle singole sensibilità appurare (o credere di appurare). l’effrazione pretende un "da parte a parte" (leggiamolo sia come partizione che spartizione, o meglio ancora: come una divisione condivisa e distribuita equamente), e il "trapasso" (trapassaggio) pretende un passo che sia in grado di scavalcare gli ostacoli (o quanto meno di aggirarli).tutto qui.ma come spesso accade c’è spesso altro con cui fare i conti e l’altro con cui rapportarsi”.
che dire? :)ah, complimenti ad entrambi!ciao Dorisun abbraccio.
Enzo, ancora grazie per l’attenzione… Marghe, anche a te: di essere qui…
oddio, enzo ha compiuto un’esegesi davvero molto tecnica, ma mi rimane un po’ piantata in gola. non perché non sia precisa e approfondita, ma solo perché quello che io apprezzo della poesia in genere sono i contorni sfumati in cui affondare come sabbie mobili.questo solo per dire che "lo sguardo" lo avrei postato solo come commento.resto comunque stupito dall’incredibile capacità espositiva di enzo, imparo un nuovo termine (forclusione, con tutto quello che ci sta dietro) e ringrazio.tu, doris, hai scritto una sabbia mobile a spirale.
gram, cioè: graaaaam, ho le guance che mi scottano, nel senso… due punti ancora: come sono contenta che tu sia qui !!! Per il mio modo di percepirti mi hai resa immensamente felice, carissimo punto di riferimento preferito, e guarda non posso fare a meno di manifestarti la mia felicità :-))) hai detto sabbia mobile :-))) hai detto spirale :-)))… o sono diventata rimba o è positivo !!! A parte le battute scherzose, sono veramente contenta Giack che tu sia passato, un abbraccio a tutto ciò che sei, smack.
Talora la poesia che esprimiamo sembra semplice, ma invece esce dai nostri contorcimenti interiori, altre volte sembra labirintica, sfocata, tempestosa e viene fuori dall’azzurro interno. Siamo umanità in ricerca d’amore: quale drammatico privilegio. Mescoliamo gli opposti: gioia, dolore e gioco.Uno dei miei sogni ricorrenti è la notte. Mi aggiro inseguita e prendo il volo oppure volo libera, non da sola: c’è sempre con me una persona che non identifico, ma benevola, che mi aiuta. Oppure ballo sul tetto di una casa sotto la luna: non deve essere comodo per la mia danza classica. Però cos’altro è la nostra vita se non una danza pericolosa?
E tu sei una ballerina splendida Mimma… un bacio
Non so se leggerai quest’altro commento, ma ti volevo indicare una cosa che Cristina aveva scritto sul suo blog, suggerita da me per te, e che credo ti sia sfuggita:http://www.poetare.it/certhan_racconti.htmlPoi, se leggerai, fammi sapere che te ne pare. Visto che ti piaceva la fiaba di Andersen forse ti sembrerà che questo raccontino la sciupi in qualche modo, in tal caso chiedo venia… Comunque il tuo parere per me è importante, purché sia assolutamente spietato, sincero più che mai anche se fosse crudo e negativo, anzi proprio di più in questo caso..E ora voglio dirti che questa tua poesia è molto ricca di suggestioni, mi piace il tuo modo di rappresentare poeticamente cose astratte come la distanza, il distacco.. io non ne sono capace..Ciao, Wilma.
è bellissima questa poesia. ed è incredibile come si possa entrare nei tuoi versi ed ogni volta percepire il rumore. non il suono, non solo almeno, ma proprio il rumore. un pò come in uno scatto fotografico.trovo quel effetto estremamente affascinante…perchè il fermo immagine è si fermo come dici eppure si muove…suona ecco…e fa rumore…(e ti prego lo so che non mi sono spiegata…uffaaaaaaaaaaaaaa).
Angie, io credo d’essere riuscita a comprendere quello che vuoi dirmi, questo anche perché conosco il tuo -linguaggio- che non è nemmeno quello parlato ma il tuo modo di comunicare attraverso la descrizione del tuo percepire poetico, e conosco anche la tua sensibilità visiva al particolare, forse ecco tu riesci a -vederlo- il suono… così tanto per pareggiare :-)) che nemmeno io riesco a spiegarmi come sento tu abbia sentito questa poesia :-) però so che l’hai sentita e questo è bellissimo per me!!
siete due grandi artisti_amici…
Questa poesia e’ davvero musica.Con ammirazione_Nicole
Nicole… che sorpresa. Bella. Conosco la tua sensibilità, la tua preparazione e soprattutto quanto sei profonda, sono davvero felice che tu sia giunta a leggermi, ciao :-)